I PETTEGOLEZZI
DELLE DONNE

 

NOTE DI REGIA

 

“I Pettegolezzi delle Donne” furono recitati per la prima volta a Venezia nel Carnevale dell’anno 1751, l’anno famoso delle sedici commedie nuove. Questa appunto è la sedicesima, e Goldoni nei suoi Mémoires ci narra che non aveva ancora scritto una riga, quando, uscito di casa per distrarsi, aveva incontrato in Piazza San Marco un buffo armeno che, dalla sua mercanzia, era soprannominato Abagigi. Ecco lo spunto felice: rientrato in casa, comincia a scivere i Pettegolezzi, una commedia corale, parte in dialetto e parte in lingua, in cui si alternano personaggi popolari, maschere, caricature teatrali. Un testo molto vario e complesso, dunque, dove confluisce da una parte quello che Goldoni chiama il “Mondo”, e cioè la società: in questo caso, i putti, le putte, le donne e gli uomini del popolo; dall’altra, il secondo “Maestro” del nostro autore, e cioè il “Teatro”: le gloriose maschere, le dame e i cavalieri, gli schiavi liberati che tornano dalla Turchia.

Come tutti sanno Goldoni voleva riformare il teatro, liberarlo dalla stanca ripetitività della Commedia dell’Arte, farlo specchio vivo e autentico della società contemporanea. Ma Goldoni è un vero uomo di teatro, sa che una riforma fatta a tavolino sarebbe destinata al fallimento; e del resto egli stesso ci dice quante cose possa insegnare nella meccanica teatrale la vecchia Commedia delle Maschere. I Pettegolezzi sono un importante nodo in cui tradizione e novità si intrecciano a moltiplicare il divertimento e la conoscenza del Mondo: nello stesso tempo e nello stesso luogo trovano fortunata coesistenza la meraviglia della favola, i lazzi delle maschere, il ridicolo delle dame e dei cavalieri, la verità dei personaggi colti dal vero. E a proposito di questi ultimi, è interessante notare una cosa: il predominio delle donne, caratteristica del Settecento e, forse, dei nostri tempi. Mentre il putto innamorato è disposto a sacrificare il suo amore alla sua “reputazion”, e cioè alla legge morale convenzionale, la putta difende il suo amore contro ogni cosa: “Ma perché me voràvelo lassar? Se fusse una putta senza pare, nol me podarave sposar? Per cossa? Se mia mare ha fallà, mi noghe n’ho colpa”.

La regia ha messo in rapporto dialettico questi vari aspetti della commedia, lasciando però a ciascuno un suo preciso spazio; e un altro spazio preciso  riservato alle canzoni, che introducono la dimensione di una Venezia eterna e insieme nostalgica.

 

Arnaldo Momo

 

 

 

 
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